La casualità è ancora la parte più interessante di una quotidianità che troppo spesso non riesce a distaccarsi da schemi sempre più stereotipati. Lo è anche in letteratura, dove ormai si trovano copertine di romanzi talmente simili fra di loro da far sospettare (spesso a ragione) che anche il romanzo impacchettato al suo interno sia una copia di qualche cosa di già letto. Così, per casualità e curiosità, ho acquistato un romanzo che si presentava con una copertina bruttissima, disegnata probabilmente da chi di grafica sapeva poco o nulla, presentata con un taglio vecchio, obsoleto. Ho comperato un romanzo di Paola Mastrocola, con la speranza di leggere qualche cosa di diverso, anche per poter dare ancora una canche a questa rubrica che ormai ha definitivamente capito che cosa spinga il nostro paese a non leggere (ma ne parleremo nelle prossime settimane).
L’esercito della narrazione sconfiggerà quello della paura. In questa guerra immaginaria, ma spesso auspicata, si nascondono i sogni dei bambini a cui è stato tolto il diritto di poterli coltivare ancora. Molti di noi hanno avuto la fortuna di poter avere fra le mani, da bambini, un libro che parlasse di mondi lontani e pacifici. Magari crescendo si è poi letto qualche cosa che ipotizzasse il gioco della guerra o che lo descrivesse nel dettaglio. La Rosa Sepolta ha scombinato il mazzo e distribuito in maniera diversa le carte; così i bambini che prendono vita nelle pagine uscite con la stessa genialità di un genio nella lampada, dalla penna di Barbara Borlini e Francesco Memo, si presentano davanti a noi con un fucile in mano. Con i segni indelebili di un conflitto che ha puntato dritto al cuore dell’infanzia. Che ha messo al muro tutte le speranze di popoli che mai e poi mai avrebbero voluto misurarsi in un confronto che sarebbe potuto essere discusso in maniera pacifica.
L’iperbole generata dall’ultimo lavoro cinematografico di Sorrentino sta producendo danno anche a livello letterario. Così, se la critica ha ritenuto doveroso il premiare uno dei peggiori lavori di collage Felliniano, contribuendo all’aumento del gregge della micro intellettualità che senza sapere né perché né per come ha continuato a definire "La grande bellezza" come un capolavoro assoluto, ecco che a livello speculare ci ritroviamo con premi letterari dove giurie di snob e saccenti romanzieri decretano che ci sia bisogno, o meglio, come ultimamente si usa dire, si senta l’urgenza di dare spazio ad una nuova forma narrativa. Cito testualmente: "In letteratura, coraggio può voler dire molte cose. Può significare rinunciare alla guida di una trama, o scegliere una lingua impetuosa, una sintassi acrobatica, o sfuggire alla tentazione di concedere al lettore rassicurazione e conforto. Ecco, questa è la motivazione che ha portato i giurati del Premio Calvino ad assegnare il prestigioso premio a "Cartongesso", scritto da Francesco Maino.
Quando le tragedie della storia si confondono e il ragazzo interrogato a scuola, nel datare un avvenimento sbaglia di tre secoli, vuol dire che i fatti non fanno più male. Vuol dire che queste tragedie, che ci siano state o meno non fa per colui che è chiamato a riassumerle alcuna differenza. L’incipit riassume quella che è l’attuale condizione dello studio della storia e se lo volessimo ridurre ai minimi termini potremmo riesumare una frase di Hitler che si domandava se ci fosse qualcuno che avesse memoria dello sterminio degli Armeni. Erano passati poco più di vent’anni da quando le milizie turche avevano sterminato il popolo armeno.
C’è una cosa che accomuna il romanzo nostrano di Paolo Teobaldi a quello che ha segnato la generazione beat di Jack Kerouac. La struttura, intesa come materia, che costituisce la strada narrata da entrambi gli autori. Il Macadam; che altro non è se non un tipo di pavimentazione costituita da pietrisco e materiale collante. Erano le strade dei primi anni del novecento ad essere ricoperte da questo nuovo ritrovato e lungo il loro districarsi, sopra alla schiena ad asino che trasportava da nord verso sud, storie, vite, pettegolezzi, aneddoti e tutto ciò che nella gerla del giorno poteva essere stipato, si vedevano nascere nuove prospettive. Si vedeva il futuro che poteva essere raggiunto, senza più dover sobbalzare per ogni buca scavata dalla pioggia o dagli zoccoli di cavalli che trainavano carretti. La lingua nera, che non era sinonimo di malattia, veniva attentamente vigilata da uomini che vivevano in case con una caratteristica particolare. Le si distingueva dalle altre, dove tutti abitavano, per il fatto che erano le prime ad essere colorate, di rosso, e non imbiancate ad intonaco.
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GAZZANIGA, INIZIATI I LAVORI PER RIPARARE AI DANNI CAUSATI DAL NUBIFRAGIO
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