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C’è una cosa che accomuna il romanzo nostrano di Paolo Teobaldi a quello che ha segnato la generazione beat di Jack Kerouac. La struttura, intesa come materia, che costituisce la strada narrata da entrambi gli autori. Il Macadam; che altro non è se non un tipo di pavimentazione costituita da pietrisco e materiale collante. Erano le strade dei primi anni del novecento ad essere ricoperte da questo nuovo ritrovato e lungo il loro districarsi, sopra alla schiena ad asino che trasportava da nord verso sud, storie, vite, pettegolezzi, aneddoti e tutto ciò che nella gerla del giorno poteva essere stipato, si vedevano nascere nuove prospettive. Si vedeva il futuro che poteva essere raggiunto, senza più dover sobbalzare per ogni buca scavata dalla pioggia o dagli zoccoli di cavalli che trainavano carretti. La lingua nera, che non era sinonimo di malattia, veniva attentamente vigilata da uomini che vivevano in case con una caratteristica particolare. Le si distingueva dalle altre, dove tutti abitavano, per il fatto che erano le prime ad essere colorate, di rosso, e non imbiancate ad intonaco.

Erano le dimore dei cantonieri e le leggende che nascevano su coloro che realmente le popolavano si rincorrevano con una velocità, sino allora sconosciuta, sulle stesse strade che i cantonieri curavano e che servivano a un paese intero per recuperare il terreno perduto da anni di guerra. Macadam è l’io narrante di questo romanzo che rappresenta in un certo senso il cambio della stagione letteraria. Un po’ come quello che le donne di casa fanno con gli abiti negli armadi. Si mette via l’abbigliamento invernale e si appendono alle grucce giacche più leggere e smanicati che segnano l’inizio della primavera. Macadam è il romanzo che ci fa uscire dal letargo e ci riconcilia con la bella stagione che si sta approssimando. Sono pagine che narrano di vita all’aria aperta, di situazioni ruspanti, di uomini che non si erano ancora lasciati incretinire dalla televisione.

Il Macadam è un palcoscenico immenso che si dipana per tutta la nostra penisola, e lì, sui bordi delle nostre strade, che nulla hanno a che invidiare a quelle americane, si incontrano personaggi che sono i precursori di ciò che poi noi stessi saremmo diventati. Gli stradini non si limitavano a rattoppare le buche che si ribellavano alla morsa del collante. Non zappavano i fossati così che l’erba gramigna imparasse che doveva starsene alla larga da questa linea retta. Gli  uomini e le donne delle case cantoniere governavano sopra a interi nugoli di persone che chiedevano dove poter andare. Anche Kerouac lo faceva, ma per farlo aveva bisogno di metanfetamine. Macadam invece trova le sue risposte nella semplicità contadina. Nel bicchiere che non è mai né mezzo vuoto né mezzo pieno.

Macadam è un uomo che osserva il mondo allontanarsi e scomparire nell’imbrunire, mentre lui capisce che la sua vita non si allontanerà mai dalla casa cantoniera che lo ha visto nascere e crescere e diventare stradino come suo padre prima di lui e come invece, purtroppo, suo figlio non potrà mai essere. È un romanzo che riconcilia la nostra storia con un passato che l’avvento del catrame ha reso più imprendibile. La velocità dell’incedere delle parole di Teobaldi è poco superiore a quella dei carretti che non sapevano se continuare a percorrere le strade bianche o se potessero avere il diritto di provare l’ebbrezza di salire in groppa a queste nuove vie di comunicazione.

Bisogna rallentare, a volte e questo è un romanzo che ci restituisce la giusta visione di un limite che spesso, senza alcun motivo, superiamo.

 

Macadam, di Paolo Teobaldi ed. E/O

 

Per una buona lettura: chiedete asilo per un paio di giorni in una casa cantoniera. Aprite le finestre. Ascoltate il rumore di un traffico lontano. Preparatevi un caffè non con le cialde ma con la vecchia moka. Sicuramente la troverete in uno di quei vecchi pensili con le ante impiallicciate, ricoperte da figurine e adesivi di marche che oggi non esistono più.

 

A cura di Wiliam Amighetti

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