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Ci  sono diverse forme di male in letteratura e cinematografia. Quella intesa come entità, quindi il demonio e tutte le sue declinazioni, vampiri compresi, che ultimamente poi risulta risibile per il tentativo di voler far credere come il maligno possa essere una sorta di simpatico vicino di casa con cui conversare e perché no, magari anche farci una grigliatina e poi quella intesa come dolore, malessere fisico o psichico. Se nel primo caso il botteghino fa sempre sold out, con file di adolescenti che si azzannano fra di loro per potersi accaparrare i posti migliori così da vedere Teenager che si tramutano in pipistrelli, ecco che invece la letteratura non riscuote lo stesso successo.

Normalmente non recensisco libri che non siano stati scritti da autori locali o che abbiano frequentato le nostre latitudini montane. Un eccezione rappresenta quindi il romanzo di Jojo Moyes con il suo “Io prima di te”. Non conosco molti italiani che amino l’idea di trasferirsi a vivere in Inghilterra. Conosco invece un sacco di connazionali che apprezzano tutto dell’isola di Albione. La musica, il calcio, e la birra spopolano nei gusti del maschio medio italiano.Ben più inclini ai sentimenti che si trovano nelle produzioni cinematografiche e nella letteratura sono invece le donne della nostra penisola e a loro è indirizzata questa recensione.

Quattrocento pagine di buoni sentimenti che portano la protagonista a fare un Crossover, così utilizziamo da subito anche un termine anglofono, nella su avita, basata su certezze più o meno solide, un rapporto d’amore che si sta costruendo fra alti e bassi e un improvviso colpo di scena che rivoluzionerà tutta la sua quotidianità.

Medici, Sacerdoti e professori dovrebbero riunirsi un paio di volte all’anno per rendere pubbliche angosce, confessioni e temi che narrano del vissuto delle persone che si trovano davanti nel corso della loro vita. Si potrebbe archiviare il tutto in un dossier immenso da cui poi poter attingere per dare forma e vita ai personaggi destinati ad essere racchiusi nelle pagine di narrativa. Lidia Popolano, insegnante, appassionata ricercatrice di storie che chiedono di essere ascoltate per poi continuare a essere narrate, cuce con pazienza una parola dopo l’altra e imbastisce così una di quelle belle coperte colorate, che la tendenza esterofila ci fa chiamare Patchwork, e che stanno meravigliosamente bene all’ombra di un grande albero di campagna, stese sul prato a costituire un isola dove chi vuole ci si può stendere sopra, per ascoltare i grilli e le cicale, il brusio del vento, le frasche che si smuovono, il tempo che scorre piano.

Le valigie hanno cambiato forma e dimensione e detto mutamento ha complicato la vita a coloro che da sempre si facevano accompagnare nei propri viaggi, di lavoro o di piacere, o nel periodo vacanziero, non tanto da mogli e amanti quanto invece dall’immancabile libro da leggere nelle sale d’attesa aeroportuali oppure spalmati e unti di crema protettiva sui litorali nostrani o esotici. Oggi i voli low-cost pesano il bagaglio al milligrammo e i bei tomi difficilmente superano l’inflessibilità dei controllori. Partire in vacanza con il romanzo di Marco Chieffallo è quindi da considerarsi fra i numeri da proporre al prossimo contest per giovani maghi. Far sparire una mattonella di cinquecento pagine richiede una buona manualità, ma la prova di prestidigitazione (cit. Silvan) val bene la possibile reprimenda del controllore.

In botanica, la radice dell’ovvio non è censita nell’elenco delle piante tossiche. Pianta ad alto fusto, cresce in ogni condizione climatica e attecchisce su ogni terreno della nostra penisola. Il suo legname non ha il potere del faggio. Non riscalda, serve perlopiù per far partire la prima fiamma e in assenza di ceppi migliori spesso finisce con l’alimentare fuochi che producono asfissianti fumi etimologici. 

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