Three seconds left. Mancano solo tre secondi. In uno spazio così breve non puoi raccontare la storia della tua vita, eppure in quei tre colpi di maglio, sull'orologio del tempo, viene forgiato quello che sarà il futuro di molti. Mancano solo tre secondi alla fine di una partita. Quella che vede l'America opposta all URSS. Gli adolescenti sappiano che ancor prima di essere CSI (non il consorzio di Giovanni Lindo Ferretti..) ancor prima di essere CCCP (sempre Ferretti come detentore del copyright nostrano), la Russia si chiamava così. Ciò che i missili puntati su Cuba non erano riusciti a fare. Ciò che sarebbe stato pochi anni dopo, con l'invasione Russa oltre i confini Afghani, si stava già materializzando nella stanza dei pazzi. Quel rettangolo di gioco dove vengono disegnate altre forme geometriche e dove cinque nerboruti ragazzi, che potrebbero trovare facilmente impiego in imprese boschive o specializzate in demolizioni, affrontano altri loro pari, in quello che non è più solo un gioco, ma che si trasforma in un feroce combattimento.
Non è la palla a spicchi quella ch eviene tirata verso il canestro. È l'orgoglio nazionale. È la vita. È la morte. Di sogni. Di speranze che sono tornate a casa a brandelli dal Vietnam. Di rabbia, per il veto sul consumismo che congela anche i sogni. Li fanno i Russi, come tutti i ragazzi, solo che in Unione Sovietica al massimo si può sperare in un futuro in bianco e nero. Il colore è bandito. La fantasia è incarcerata. Il basket è un altra cosa, Skid. Scriveva così Philip Roth nella sua Pastorale Americana. Il Basket è ciò che Picasso ha messo poi su tela nel periodo cubista. Un insieme di elementi ch eaccostati fra di loro possono solo essere definiti arte. È l'unica fuga possibile dalle ganasce del regime. Lo sa anche Sasha Belov. Numero quattordici in maglia rossa. Lo sa anche Kevin Joyce, numero quattordici in maglia bianca. Lo sa il mondo intero, ma è Belov quello che ha in mano la palla ch ecambierà la storia. Per sempre. Perchè loro due non saranno più Alexei e Kevin. Sarranno il vincitore e il perdente. Saranno osannati e denigrati, ma con fortune diverse. Belov finirà travolto da valanghe di invidia. Di calunnie.
Arrestato con la falsa accusa di contrabbando. Il gigante si piegherà su se stesso lasciando che la malattia lo riduca a pezzi. Joyce non cercherà nessun Ulisse. Rimarrà alla fonda per anni. Devastato dall'immagine di quella palla che passa sopra alle sue dita protese verso il nulla. Indicato dai lillipuziani come un reduce e villipeso. Il mutismo di un ragazzo introverso lo trasformerà in una statua. Nel 1972, un secondo adopo la fine degli ultimi tre, Belov corre per il campo verso una libertà effimera. Joyce volta le spalle a tutto. Chiudendo le porte dei suoi giorni futuri. Abdicando da un ruolo che non era suo e smettendo di credere a quello che doveva essere il sogno americano. Non si rivedranno mai più. Entrambi prigionieri di quei tre colpi sull'incudine che ha cambiato forma alle loro vite. Ci sono stati altri tre secondi. Ci sono stati altri tiri sulla sirena (non quelle di Ulisse e nemmeno quelle di Joyce) ci sono state altre storie. Jim è entrato e uscito dal campo di Basket. Spike Lee ha fatto si che l'orgoglio afro si identificasse con quello che i discendenti dei mandinghi chiamano "our game" il nostro gioco. Ci sono stati altri rimbalzi e stoppate.
Ma nesuno ha ancora raggiunto la drammaticità di quei tre secondi. Questa è una favola per adulti. Giganti che sognano la libertà. Quella di potersi risvegliare ancora una volta nel corpo di un bambino.
Le Vittorie Imperfette – di Emiliano Poddi ed Feltrinelli.
Chick and Chips. Coca Cola. Hamburger e rutto libero devono accompagnare il tutto
A cura di William Amighetti
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