ATTENZIONE: Copia a scopo dimostrativo, alcuni elementi potrebbero non funzionare.

La nuova forma di arte moderna sta diventando sempre di più la rappresentazione della morte. Ci posizioniamo silenti alle spalle di anatomopatologi che sezionano cadaveri, intuiamo ben prima di valenti detective quale sia la strada da percorrere per risolvere casi intrigati, ci immedesimiamo in una sorta di macellai del brivido, dimenticando sempre di più lo spessore degli affetti, la sensibilità, le logiche comportamentali, in nome di un Noir pasticciato di rosso che ogni giorno assurge alle cronache. Così è anche in letteratura, dove se si volesse essere cattivi si potrebbe paragonare il mondo editoriale italico ad una sorta di cimitero degli artisti. Un po' come se gli scaffali delle librerie si stiano trasformando sempre più in un luogo simile a Perè Lachise … "tutti i pseudo autori desiderano che il proprio tomo riposi impolverito su di uno scaffale". Da una di queste mensole ho tolto (senza che la polvere lo avesse ancora intaccato), il romanzo di Mirko Zilahy, italianissimo a dispetto del nome e precursore di quella che sarà la nostra anagrafica a venire. L'ho scelto non proprio a caso, ma scorrendo la classifica di vendite presentata da RCS, dove abbiamo stabili, come fossero opera da museo, i nomi di Camilleri, di Fabio Volo, di Pennachi, di Primo Levi che ad ogni Gennaio fa ancora capolino.

Se dovessimo fare un autopsia letteraria scopriremmo che il nostro mondo editoriale si è autoestinto per carcinoma minoris, nel senso che di lavori interessanti e validi se ne trovano davvero ben pochi. Merita una lettura invece Zilahy, che ha prima imparato il mestiere, traducendo e lavorando come editor, e poi ha dato pennellate scure e intense per tratteggiare il suo primo lavoro. Non amo il thriller. Non mi è mai piaciuto. Alla fine è un susseguirsi di ovvietà, ma Zilahy ha descritto l'approcciarsi alla morte in maniera diversa e finalmente ci si trova a voler leggere un libro sino in fondo, capovolgendo la prospettiva e portando il lettore ad una dimensione teatrale, quasi tridimensionale. Perché la morte è uno spettacolo. Lo sa bene, Enrico Mancini. Lui non è un commissario come gli altri. Lui sa nascondere perfettamente i suoi dolori, le sue fragilità. Si è specializzato a Quantico, lui, in crimini seriali. È un duro. Se non fosse per quella inconfessabile debolezza nel posare gli occhi sui poveri corpi vittime della cieca violenza altrui. È uno spettacolo a cui non riesce a riabituarsi. E quell’odore. L’odore dell’inferno, pensa ogni volta. Così, Mancini rifiuta il caso. Rifiuta l’idea stessa che a colpire sia un killer seriale. Anche se il suo istinto, dopo un solo omicidio, ne è certo. E l’istinto di Mancini non sbaglia: è con il secondo omicidio che la città piomba nell’incubo. Messo alle strette, il commissario è costretto ad accettare l’indagine… E accettare anche l’idea che forse non riuscirà a fermare l’omicida prima che il suo disegno si compia. Prima che il killer mostri a tutti – soprattutto a lui – che è così che si uccide. Non mi auguro che il lavoro di Zilahy faccia poi tanti cloni. Ne ho avuto abbastanza delle sfumature, dei draghi, di Elfi e gnomi e di maghetti. Però questo romanzo finirà sullo scaffale pulito, quello dove la polvere non viene lasciata posare perché è lì che riponiamo le cose che ogni tanto ci piace osservare ancora.

 

Mirko Zilahy - È così che si uccide. Ed Longanesi

Cenate in modo frugale e leggero. Camomilla con sonniferò è indicata prima di spegnere la luce.

 

A cura di William Amighetti

Scrivi a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

Tutti i diritti riservati ©

WEB TV