Ci sono quasi quattromila musei dislocati lungo la nostra penisola. Racchiudono ogni forma di arte che è sopravvissuta all’incedere del tempo. In nessuno di questi si trova però uno spazio dedicato alla sola parola. Se mai venisse creata una pinacoteca allo scopo di sopperire a tale lacuna, ecco che un intera sala potrebbe accogliere i tempi verbali e i germogli degli aggettivi che Mario Rigoni Stern ha fatto crescere, a suo tempo, in quello che può essere visto come un immaginario orto di montagna, esposto al freddo e al gelo e capace di dare primizie, che spuntino dalla coltre bianca così come fanno i bucaneve e che mostrano tutta la loro caparbietà e la loro voglia di vivere. Le parole di Stern hanno una dimensionalità tale che il loro innesto sulla carta bianca determina delle sensazioni talmente peculiari da rendere i romanzi dello scrittore veneto così vivi che si può sentire il caldo o il freddo direttamente sulla punta delle dita. In inverni lontani, anche Stern si lascia ammaliare dalla macchina del tempo. Quella letteraria.
La sola e unica che ancora oggi ci permette di andare avanti o indietro rispetto a quello che sia il nostro punto esistenziale. Ci ritroviamo quindi in mesi che portano lo stesso nome con cui oggi continuiamo a chiamarli, ma un dicembre di mezzo secolo fa non può di certo essere identico a quello dei giorni nostri.
C’erano meno difese contro il freddo e il gelo e le sue truppe avanzavano, superando le trincee scavate in fretta dagli uomini che cercavano di combattere una battaglia ciclica. Se le sensazioni potessero poi essere incorniciate, appese ad un muro per far i che chi non le ha mai vissute le possa ammirare, in silenzio, cogliendo ciò che questa hanno rappresentato in tempi non troppo lontani, allora come primo quadro sceglierei l’immagine del fuoco che Stern usa come contro altare alla descrizione dei suoi lunghissimi periodi gelati. Quel fuoco che oggi non c’è più e che viveva nei camini, sostituiti da termosifoni o impianti di riscaldamento invisibili.
Il fuoco che era famiglia e che rappresentava il centro di riferimento o di gravità, come potrebbe dire chi continua imperterrito a piantare semenze verbali nelle proprie serre lessicali. Inverni lontani è un lavoro che si compone di poche parole. Eppure, così come i precedenti romanzi di Stern, non manca di nulla. Come diceva il piccolo principe, l’essenziale è invisibile agli occhi e sfortunatamente anche le parole, quelle vere, ormai si mescolano quotidianamente con neologismi inutili. Erbe gramigne che finiscono con il mortificare la delicatezza di alcuni termini.
Recuperare la nostra tradizione letteraria è possibile. Riprendere fra le mani piccoli testi ed osservare il loro battito di ali, simile a quello delle farfalle, augurandoci che la vita delle parole sia maggiore rispetto a quella del baco da seta.
Inverni lontani di Mario Rigoni Stern
Per una buona lettura: spegnete il riscaldamento di casa. Cercate riparo sotto a vecchie coperte e riscaldatevi leggendo parole che pensavate di avere dimenticato.
A cura di Wiliam Amighetti
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