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L'araba fenice rinasce dalle proprie ceneri. La resurrezione di un uomo può avvenire anche attraverso verbi e aggettivi che costituiscono un cordame di parole a cui aggrapparsi per risalire il dirupo che aveva visto passare la discesa dell’animo. Ecco, questa potrebbe essere la prima chiave di lettura del romanzo autobiografico di Giordano Tomasoni; una scala da percorrere in entrambe le direzioni, per lasciarsi accompagnare per mano nel buio degli scantinati della depressione, sentendo il freddo, l’odore di chiuso e rumori di fondo che si mescolano alla paura, all'incapacità di riuscire a vedere un futuro e al desiderio di non voler più ripercorrere a ritroso i gradini che improvvisamente appaiono alti, invalicabili. La risalita, improvvisa, dolorosa e ripidissima, compare dopo che un colpo di scure violento ha squarciato il buio. L'ascia, come il cesello, la pialla, tutti arnesi che in una vita diversa Giordano utilizzava abitualmente ogni giorno.

Era un falegname San Giuseppe, lo era il Da Vinci e anche Geppetto e l’insieme delle varie tecniche si mescola nel percorso di rinascita che leggiamo pagina dopo pagina. Conosciamo la croce e quanto sia pesante doverla portare, facendosi largo fra gente che non ti vede e che non riconosce il calvario personale di chi la porta.

Intuiamo la genialità nel progettare nuove forme di movimento, più veloci, scattanti, così da sostituire le gambe, che sono rimaste smarrite nelle segrete di un luogo dove nessuno dovrebbe entrare e infine scorgiamo un burattino, seduto composto e verniciato di fresco. Timoroso di aver combinato una marachella più grande di quanto potesse sospettare e impaurito da quella che sarà la punizione che lo aspetta. Invece questa è una bella storia, fatta di speranza, di voglia di ricominciare di una fata invisibile che trasforma il burattino in un uomo migliore, che gli dona due braccia fortissime e che gli sussurra che le gambe sono state cattive e che non sarà un problema per lui muoversi spingendo con forza, su e giù dalle strade della Val Seriana una carrozzina che lo porterà a raggiungere sogni inimmaginabile.

Giordano Tomasoni scrive. Lo fa di continuo. E parla. Come forse non aveva mai fatto nella sua prima vita, quando era una fenice incline a volare troppo vicino al fuoco. Scrive di quanta speranza si possa continuare a coltivare anche se il terreno è arido o coperto da una coltre di ghiaccio. Scrive parole minuscole che potrebbero diventare slogan da prolungare sui muri. Scrive di un mondo che non siamo abituati a vedere e scrive di una quotidianità che spesso dimentichiamo. Il legno non è tutto uguale. Giordano usa aggettivi di cirmolo, morbidi, docili a lasciarsi modellare nei tempi verbali e mischia la sua scultura letteraria con parole di ebano, pesanti che obbligano la coscienza a seguirli sul fondo, a trattenere il fiato, a credere che non ci sia una via di ritorno. La risalita in superficie.

L’aria che invade i polmoni è lo stesso vagito primario che il bambino emette non appena entra in quello che sarà il suo nuovo mondo. Ecco, il libro di Giordano va visto come una fase gestazionale che ha poi dato alla luce un uomo nuovo. Capace di essere forte e umile. Serio e sereno. Ma soprattutto vivo.

 

MI SPINGE LA SALITA

di Giordano Tomasoni

 

Per una buona lettura si consiglia

Brocca di Karkadè ghiacciato

Tortina al cioccolato bianco e foglie di menta

 

A cura di William Amighetti

 

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