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Napoli, anno 2001. Il locale Tribunale pronuncia sentenza di divorzio e pone a carico della moglie un assegno di mantenimento dei due figli della coppia pari a 800.000 lire mensili. La donna ricorre contro la sentenza chiedendone la modifica delle condizioni.

A suo avviso i figli, seppur posti nelle condizioni di rendersi economicamente indipendenti,  non ne hanno tratto profitto, motivo per cui non spetterebbe loro alcun assegno. Evidenzia la donna: il primo dei figli, iscritto al terzo anno dell’università, ha superato solo quattro esami, mentre il secondo, fuori corso da quattro anni, ha superato solo metà degli esami previsti dal piano di studi. Dalle note dell’agenzia delle entrate risulta poi che i figli hanno percepito redditi da lavoro. Primo grado di giudizio: il marito non si costituisce, il Tribunale di Napoli rigetta la domanda della donna. Secondo grado di giudizio: il marito nuovamente non si costiuisce, la Corte d’appello di Napoli accoglie la domanda della donna. A questo punto, ovviamente, si materializza il marito, che svolge ricorso in Cassazione, e si giunge ai giorni nostri.  Investita del ricorso la Suprema Corte così ragiona:

  • Si tratta, come sempre in questi casi, di trovare un equilibrio tra esigenze dei figli non ancora autonomi e necessità di loro mantenimento, senza che ciò si tramuti in una rendita a beneficio di soggetti inattivi
  • In un contesto caratterizzato da crisi economica è indubbio che i figli permangono presso il nucleo familiare più a lungo rispetto al passato, essendo più arduo raggiungere l’indipendenza economica. In questo contesto viene enfatizzato il dovere di solidarietà tra due generazioni: gli anziani beneficiari di molte più tutele da un lato ed i giovani precari dall’altro, il cui futuro lavorativo e previdenziale è sempre più fosco  
  • La Corte spende due righe per stigmatizzare le “eccessivamente sbrigative, gratuite, memorabili ed infelici” definizioni dei giovani che faticano a lasciare la famiglia, rilasciate da “due dotti ministri della Repubblica”  (i “bamboccioni” di Padoa Schioppa ed i “choosy” della Fornero, n.d.r.)
  • E’ dunque arduo, evitando facili semplificazioni, comprendere con sufficiente precisione il momento in cui l’obbligo di mantenimento viene meno (posto comunque che il mantenimento è dovuto sino alla maggiore età)
  • Spetta al genitore tenuto al mantenimento la prova che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica così come la prova che il figlio, sebbene posto nelle condizioni di rendersi economicamente indipendente, non ne ha tratto profitto, ed anzi si sia sottratto volontariamente allo svolgimento di attività lavorativa adeguata e corrispondente alla professionalità acquisita
  • Per la Corte la donna ha comunque effettivamente dimostrato nel ricorso che ai figli era stata data l’opportunità di frequentare l’Univeristà e che quest’ultimi non ne avevano tratto profitto, motivo per cui il ricorso della donna merita accoglimento

Per tutte queste ragioni, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1858 del febbraio 2016, ha confermato la revoca dell’assegno di mantenimento e dunque rigettato il ricorso del marito, condannandolo al pagamento delle spese di lite.

 

Rubrica a cura dell’avv. Stefano Savoldelli del foro di Bergamo.

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