Quanto grande è la distanza culturale che separa la società italiana da quella cui appartengono quei cittadini stranieri che, comunque giungano in Italia, decidono di rifugiarvisi, venirvi a vivere o lavorare? Arduo rispondere. Comunque stiano le cose, è certo che il massiccio flusso migratorio che da tempo interessa la nostra nazione impone al legislatore scelte e decisioni talvolta di difficile bilanciamento e soluzione.
Emblematico, in tal senso, è il caso di cui si è recentemente occupata la Corte di Cassazione con la sentenza n. 14960/2015. La vicenda, svoltasi in provincia di Asti, narra di un uomo marocchino condannato in primo e secondo grado di giudizio (due anni ed otto mesi di reclusione oltre al risarcimento danni alla parte civile) per i reati di maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli (art. 572 c.p.), violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) e violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p), reati tutti avvinti dal vincolo della continuazione. Innanzi alla suprema Corte l’uomo aveva invocato a sua discolpa la scriminate putativa ex art. 51 c.p., ritenendo che le sue azioni fossero tanto consentite quanto lecite, essendo egli originario d’un paese ove, per ragioni socioculturali, la donna, tenetevi forte, è ritenuta essere oggetto di proprietà esclusiva del marito. Aveva aggiunto l’imputato che l’uguaglianza di trattamento degli stranieri innanzi alla legge italiana corre a suo dire il rischio di trasformarsi in trattamento diseguale per gli stranieri, così costretti a sottomettersi a costumi da loro non conosciuti e spesso contrari alle loro abitudini. L’uomo, riferendo di essere appena giunto in Italia, aveva infine evidenziato di non aver potuto sapere se, in base alle norme italiane, i suoi comportamenti fossero leciti o meno. La Corte, tenute in debita considerazioni le eccezioni dell’uomo ha così deciso:
- In una società multietnica non può ritenersi che l’ordinamento possa essere scomposto in tanti statuti quante sono le etnie che la compongono
- La miglior soluzione al conflitto socioculturale in essere è quella di armonizzare i comportamenti rispondenti alle varie culture sulla base del principio della centralità della persona umana, vero ed unico comune denominatore per la creazione di una società civile
- Per la sopravvivenza d’una società multietnica è essenziale che chiunque vi si inserisca abbia l’obbligo di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano
- Non può riconoscersi buona fede in chi, dopo essersi trasferitosi in altra nazione dai costumi e dalle culture differenti dalla propria, vanti poi il diritto di adottare condotte che, sebbene lecite per la sua società, siano incompatibili con quelle della nazione ove ha scelto di trasferirsi
Ciò premesso, la Corte di Cassazione ha ritenuto che il comportamento dell’uomo di nazionalità marocchina fosse contrario a qualsiasi principio e che non fosse espressione di alcuna cultura, tanto meno di quella di appartenenza dell’imputato. Afferma la Corte che esula dalla cultura marocchina, di fede musulmana di stretta osservanza, il non prendersi cura del primo figlio di sesso maschile (circostanza ricorrente nel caso di specie), in particolare nella prima infanzia, privandolo del necessario. Dichiarato inammissibile il ricorso, l’imputato, confermata la sentenza emessa in appello, è stato condannato al pagamento delle spese processuali e di euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.
Rubrica a cura dell’avv. Stefano Savoldelli del foro di Bergamo
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