La memorabilia cartacea permette di conservare, attraverso cartoline in bianco e nero, vecchi ritagli di giornale e fotografie ingiallite, l’immagine di ciò che eravamo. Ci da la possibilità di entrare nella macchina del tempo e di farci trasportare indietro restituendoci velocemente ad un passato che l’attuale frenesia quotidiana cerca sempre più di disconoscere. Un valido contributo per impedire che la nostra memoria si lasci bucherellare da tarli non opportunamente tenuti a bada da massicce dosi di naftalina sembra potercelo dare il romanzo di Massimo Cuomo, “Piccola Osteria senza parole”, uno spaccato piacevole, carico di situazioni, personaggi, ambientazioni che potrebbero costituire una buona imbastitura per un documentario della serie “Come eravamo”.
In Italia, sino alla metà degli anni novanta, esisteva una sorta di guida Michelin che indicava al popolo errante dove si poteva mangiare bene. Di solito lo si capiva guardando quanti autotreni stazionavano nel parcheggio delle trattorie. Nelle immediate vicinanze sorgevano poi le osterie. I circoli Acli o i primi bar che cercavano di ricalcare i cliché proposti dalle pellicole cinematografiche americane. È lì che è stata fatta la nostra storia. La guerra era finita da tempo, ma i proclami, le campagne elettorali, le dispute per la legittimazione dei propri colori calcistici, le strette di mano che suggellavano accordi di ogni natura, si sono consolidate nelle osterie che ogni paesino presente nella nostra penisola aveva. Massimo Cuomo deve avere un orologio a carica manuale. Uno di quei padelloni rumorosi, con il datario costituito da numeri visibili ai miopi. Deve averlo preso per le mani facendo girare le lancette in senso antiorario. Riesumando attori di quella che è stata la sua gioventù. Riportandoli al centro di un palcoscenico dove le vicende di tutto un piccolo paese convergono.
Scovazze non esiste, eppure la descrizione che Cuomo è in grado di proporre, fa sì che questo luogo immaginario si materializzi, rendendosi così incredibilmente simile a quelli che possono essere stati i nostri luoghi d’origine, i paesi di campagna, pregni di nebbia, di odore di letame, di macchiette umane cariche di aneddoti, tic e manie. Il tempo descritto da Cuomo è quello dove esistevano i pettegolezzi; C’erano palpitazioni per donne che si facevano guardare e che conoscevano l’arte della seduzione e si viveva ancora alimentandosi con cose semplici eppure così fortemente essenziali. Nella Piccola Osteria c’era un televisore e dentro a quella scatola che trasmetteva le prime immagini a colori c’era la nostra cultura, c’erano i nostri sogni e i nostri eroi. I fatti narrati si svolgono nell’estate del novantaquattro, quando negli Stati Uniti si stanno disputando i campionati del mondo di calcio. Gli avventori non si piegano al consumato gioco italico di trasformarsi in commissari tecnici. Su di una cosa sola concordano. Nella vita come nel gioco è molto meglio che i terroni non siano partecipi. Il Nord est, duro, crudo narrato con una lingua che non prevede concessioni all’italiano, mette in mostra l’ostracismo riservato a un forestiero improvvisamente catapultato in una scena che non chiedeva ulteriori attori. Cuomo sposta due culture facendole collidere. Portando la tipicità del sud a cozzare contro l’ermetismo del nord e riuscendo laddove in molti hanno fallito. Piccola osteria è il racconto di ciò che siamo stati e di ciò che a volte un senso di amarcord ci porta a rimpiangere. La costruzione narrativa con la tecnica delle matrioske, fa sì che il romanzo abbia al suo interno una serie di storie che inevitabilmente, concatenandosi, danno vita a un grande insieme.
Quasi sfugge, grazie al finale, decisamente inaspettato, quali siano poi state le sorti della nostra nazionale di calcio. I protagonisti diventano improvvisamente più importanti e il lettore brama nel voler sapere quale sia il destino che è stato riservato ad ognuno di loro. Già il fatto di essere riuscito a sovrastare uno dei dogmi fondamentali della cultura italica, il Dio pallone, segna un punto a favore nella prosa di Cuomo. Una serie di situazioni impreviste impreziosisce ancora di più questa piccola perla letteraria. Un romanzo che ti fa venire voglia di salire in macchina per andare a vedere che cosa stiano facendo ora i protagonisti di un libro che difficilmente si può credere essere frutto della sola fantasia dell’autore.
Piccola Osteria senza parole – di Massimo Cuomo
Edizioni e/o pag 238
Per una buona lettura si consiglia di andare alla ricerca di uno di quei vecchi circoli del dopo lavoro ferroviario. Ordinate senza indugio un’ombra de vin. Così, come biglietto da visita. Proseguite poi con del Pastin, o dei Torresan di Breganze su quadrotti di polenta. Agordino di malga o bastardo del grappa e caffè, rigorosamente fatto con la moka.
A cura di Wiliam Amighetti
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