BRE BANCA

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Scure Ubi su Bre Banca: duecento posti a rischio

Nella Granda annunciata la chiusura di 15 sedi e il declassamento di
 
 
 
 
14/10/2014
LORENZO BORATTO
CUNEO

Una pesante «cura dimagrante» per il gruppo bancario Ubi: questa volta sarà particolarmente colpita la Banca Regionale Europea, l’istituto di credito con sede a Torino (1.781 dipendenti e 244 sportelli) ma nata a Cuneo. La Bre ha circa 900 dipendenti in 174 uffici nella Granda, dove è l’istituto di credito più presente. Trapelano alcuni numeri: chiuderanno 15 uffici, 16 filiali saranno declassate. 

I dettagli su “La Stampa» di mercoledì 15 ottobre. 

AGGREGAZIONI?

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da " Affari & finanza" del 13 Ottobre 2014

 

Banche, matrimoni Popolari troppo piccole, troppo coop non possono più correre da sole

SE LE PRIME QUATTRO SI UNISSERO SAREBBERO COMUNQUE PIÙ PICCOLE DI INTESA E NON LO FARANNO MAI. BANCO POPOLARE E BPM ASSIEME PIACEREBBE AI MERCATI MA FA PAURA AI SOCI. LA BCE PERÒ PREME E QUALCOSA SI DOVRÀ FARE. NELLA PARTITA PURE CARIGE

Vittoria Puledda

 

I l fischio di inizio è venuto da due pezzi da novanta del settore, Victor Massiah e Pierfrancesco Saviotti, al congresso sindacale Uilca. Il primo ha ricordato apertamente che il mercato guarda ad Ubi come a un soggetto aggregatore e 'avendo sempre detto che Ubi è tra le banche più solide, sarebbe contraddittorio se mi trovassi in disaccordo con questo giudizio'. Il numero uno del Banco Popolare ha fatto un passo in più e lanciato un ballon d’essai. S aviotti infatti ha parlato del “sogno” di fidanzarsi con la Bpm, anche se poi ha aggiunto: “Onestamente, non vedo una possibilità di questo genere” Almeno per ora, probabilmente. Segnali importanti, di un risiko tra banche popolari che evidentemente si è messo in moto. E se fino al completamento degli esami della Bce - a fine ottobre - nessuno oserà muoversi, tra gli operatori qualche ragionamento su cosa potrebbe succedere dopo comincia ad affacciarsi. Partendo probabilmente dall'ipotesi più ambiziosa, quella di costituire un terzo polo bancario nazionale forte intorno al mondo delle popolari, alle spalle di Intesa e Unicredit. Ma contemplando anche soluzioni intermedie, più soft ma probabilmente più praticabili. Nel primo caso i piani di aggregazione non possono che ruotare intorno a Ubi - la più efficiente del settore - a un'incollatura in termini di dimensioni dal Banco Popolare. Il quadrilatero ideale delle grandi banche cooperative continua poi passando per Bper (circa la metà delle prime

due in termini di attivi e prestiti alla clientela) per finire con Bpm, la più ridotta per volumi (con un totale attivo di meno di 50 miliardi rispetto ai 123 di Ubi e ai 60 di Bper) ma di gran lunga la più ambita. Né potrebbe essere altrimenti, visto che opera quasi esclusivamente in Lombardia, una delle regioni a più alto reddito dell'Eurozona. Nemmeno tutte e quattro insieme costituirebbero un gigante (avrebbero 250 miliardi di impieghi alla clientela rispetto ai 332 di Intesa) però rappresenterebbero un polo di tutto rispetto. Quanto, nella realtà, probabilmente irrealizzabile. Per questo accanto alle astrazioni, circolano anche ipotesi 'minori'. Che vedono prevalere nei processi di fusione un mix di debolezze e di convenienze, di affinità di struttura e, non da ultimo, di alchimie positive tra gli uomini al vertice. Non sarà un caso se il matrimonio più scontato - quello tra Ubi e Banco Popolare - ha più rivali di Renzo e Lucia, mentre potrebbe essere più praticabile un sodalizio tra Banco e Bpm (magari con lo 'zampino' della Carige). Il primo fattore da tener presente, attualmente, è il convitato di pietra al gran risiko delle Popolari, cioè la Bce. La Banca Centrale Europea sta per emettere i 'verdetti' sugli istituti di credito dell’eurozona di maggiori dimensioni e, per quanto riguarda l’Italia, le Popolari abbondano (Veneto Banca, Popolare di Vicenza, Bpm, Bper, Banco Popolare e Ubi). E fino a quando non sarà compiuta la grande revisione, non si muoverà nulla. Il doppio esercizio di valutazione degli istituti di credito - Aqr e Stress test - non è certo meno impegnativo per le banche 'tradizionali', ma per le Popolari potrebbe rappresentare la spinta indispensabile al processo di aggregazione. Il primo punto da cui partire è quanto faranno male questi esami, quanto la Bce userà la mano pesante nelle valutazioni: essere troppo severi, spingendo le banche a nuove ricapitalizzazioni o comunque a comprimere ancora il credito per rispettare i parametri di capitale avrebbe infatti un effetto contrario al ciclo espansivo che la stessa Bce intende innescare con le aste di rifinanziamento mirate (le Tltro) e le altre misure per far crescere la liquidità del sistema. E poi dipende da 'come' verranno passati gli esami: si può essere promossi, ma passare la prova con il minimo dei voti; insomma, trovarsi in una condizione di debolezza che necessariamente spingerebbe ad aggregazioni. Perché, è il concetto di fondo, nessuno si muoverà spontaneamente; e nessuno farà una mossa di aggregazione tra pari (per le stesse intuibili ragioni di opportunità e di potere). «Dopo questa tornata di esami e con l’ingresso sotto la vigilanza della Bce, sono convinto che ci saranno opportunità/necessità di aggregazioni - dichiara Pierfrancesco Saviotti, numero uno del Banco Popolare - ovviamente, dovranno essere aggregazioni che diano benefici», spiega parlando in generale del mondo-Popolari. Che questa volta sia quella giusta? A suo tempo la foresta pietrificata delle casse di risparmio fu scossa dalle fondamenta da una modifica legislativa, scritta da Giuliano Amato, che rese possibile l’impossibile. Sarà un caso, ma anche in questo caso si parla di una modifica della legge sulle Popolari (vedi intervista in pagina). E ancora: il Fondo monetario è tornato recentemente a parlare della necessità, per le banche Popolari di dimensioni nazionali, di abbandonare la forma cooperativa; insomma, tanti fattori convergono sulla necessità di un cambiamento, anche se non è chiara la direzione. Da questa fase ancora magmatica potrebbero nascere forme di aggregazione ibride e sul mercato qualcuno comincia ad interrogarsi anche su matrimoni 'misti': ad esempio, tra la Carige - che stress test a parte, una gran forma non ce l’ha e un azionariato stabile nemmeno, visto che la Fondazione è destinata naturalmente a dimagrire oltre quello che ha già fatto - e la Bper. A favore della Popolare modenese gioca la quasi contiguità geografica ma per il momento non risultano dossier aperti. Anzi, a dire il vero in questa fase di ipotesi reali non ce ne sono proprio: qualsiasi disegno concreto è necessariamente rimandato al dopo- esiti Bce. Però, certo, Carige resta un’indiziata forte per qualsiasi matrimonio, e anche per un intervento di Andrea Bonomi, che tutti ritengono ancora molto interessato alla partita; magari, perché no, anche insieme a qualche banca. Dal canto suo, il numero uno di Bper Alessandro Vandelli qualche ambizione, guardandosi intorno a 360 gradi, sotto sotto ce l’ha: «Veniamo da una storia di aggregazioni amichevoli e riteniamo di continuare ad avere le caratteristiche di polo aggregante», spiega. Del resto la banca una gran parte di lavoro di pulizia dovrebbe averlo fatto: dopo il cambio di direzione e le tirate di orecchie di Bankitalia le coperture dei crediti in difficoltà sono passate - senza write off - dal 32 al 39%, ad esempio, contro il 27% del Banco Popolare e il 27,61 di Ubi, che viene considerato il campione nazionale tra le banche Popolari (nonostante l'ombra dell'indagine della Procura di Bergamo, sui vertici dell'istituto, ancora in corso). Qualcosa di più sul futuro di Bper si capirà con il piano industriale 2015-2017 (con possibile estensione di un anno) che potrebbe essere presentato insieme all’approvazione del bilancio. Non si può nemmeno escludere che qualche simpatia, nel caso della Bper, possa andare alle due banche valtellinesi (Creval e Sondrio). Ma alla Carige, in un'altra ottica, potrebbe guardare anche la Bpm. La banca milanese ha fatto un buon percorso di risanamento e, governance a parte, sta finendo di leccarsi le ferite e comincia a guardare al futuro con maggior fiducia. Resta la preda più ambita e lo stesso Saviotti non ne ha fatto mistero, aggiungendo però di sapere che non è sul mercato. E in effetti Bpm in questa fase è difesa proprio dalla sua governance 'difficile', in grado di scoraggiare molti potenziali pretendenti: la sua debolezza diventa la sua forza; in versione difensiva, ma pur sempre efficace sotto certi punti di vista. Per questo potrebbe essere ragionevole un matrimonio con Carige, magari ben visto anche dalla base della Bpm, perché, non essendo Carige una Popolare, non annacqua il peso dei soci-dipendenti di Bpm. Per il momento l'ad Giuseppe Castagna è concentrato sull'attualità. Non senza qualche ambizione prospettica: «In questi mesi abbiamo affrontato un'opera impegnativa - spiega - oggi siamo in una situazione invidiabile, con una liquidità fortissima. Vogliamo continuare su questa strada e poi se ci sarà un momento di aggregazione cercheremo di guardare e fare la nostra parte». E poi ci sono le due Popolari non quotate - ma non irrilevanti come dimensioni - cioè la Vicentina e Veneto Banca. Entrambe reduci da processi di rafforzamento del patrimonio non banali (grosso modo da un miliardo a testa, anche se con forme diverse) e su cui ora si attende il responso Bce. Ma per entrambe, a prescindere dalla solidità patrimoniale, c'è un problema di fondo: la loro 'carta' vale troppo. Il meccanismo di autoattribuirsi un valore, in occasione dell'assemblea annuale, porta infatti la Popolare di Vicenza ad avere una capitalizzazione pari a 5,2 miliardi e Veneto Banca ( post aumento) a 4,9 miliardi. Valori non lontani dalla capitalizzazione di Ubi (5,5 miliardi) che però ha un attivo tre volte più grande, ad esempio, di Veneto Banca. Nella foto, da sinistra a destra: Victor Massiah, amministratore delegato di Ubi Banca e Pier Francesco Saviotti, amministratore delegato del Banco Popolare

 

 

(13 ottobre 2014)© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

CORRIERE 5 LUGLIO 2014

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«Assemblea Ubi da invalidare»
Scoppia la guerra dei numeri

Jannone: le mie firme bastano. La banca: troppo poche

 
 
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Un atto di citazione presentato il 16 luglio di un anno fa, cinque memorie, una perizia che si concluderà a gennaio e tempi che si prospettano non brevi, anche solo per entrare nel merito della questione. La querelle tra Giorgio Jannone e Ubi Banca avviata presso la sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale di Brescia, con la quale l’ex onorevole a capo della compagine «Ubi Banca Ci siamo» ha impugnato l’assemblea dei soci del 2013, ha i contorni di una telenovela societario-bancaria con alcune puntate dai risvolti interessanti. Anzi, per certi versi affascinanti come, ad esempio, quello secondo cui dei 14.568 soci che, in proprio o per delega, si ritrovarono alla Fiera di Bergamo solo poco più di un migliaio, sarebbero stati titolati a partecipare. Mille regolari contro 14 mila e passa «portoghesi», insomma, secondo Jannone. Proprio sulla composizione del corpo sociale di Ubi Banca, il consulente Valerio Galeri, nominato dal giudice Paolo Bonofiglio, svolgerà nei prossimi mesi la perizia che dovrà rispondere alla domanda-madre del procedimento. Quanti erano i soci di Ubi Banca che il 20 gennaio 2013 erano titolari del numero minimo di azioni previsto dallo statuto e quindi potevano partecipare all’assemblea che si sarebbe svolta tre mesi dopo? Ieri, per la prima volta, il perito è arrivato nella sede di Ubi, dove in mattinata ha preso visione dei tomi societari- diverse decine di faldoni- e preso atto del compito che lo aspetterà da qui a novembre: scattare una «foto» del corpo sociale di Ubi, fare lo screening dei soci e del loro pacchetto azionario con un fermo immagine al 20 gennaio 2013. Dal conteggio asseverato dipende il corollario sostanziale che deciderà l’ammissibilità dell’impugnazione. L’atto di citazione, infatti, porta nove firme (8 persone fisiche oltre a quella dello stesso Jannone, nella doppia veste di socio di Ubi e di ad di JCapital spa). Sufficienti per promuovere l’azione? No secondo Ubi, sì secondo Jannone.

 

Carenza di legittimazione

La banca si rifà al combinato disposto degli articoli 2377 del codice civile e 135 del Testo Unico della Finanza, secondo cui nelle società cooperative con azioni quotate, come Ubi Banca, l’impugnazione delle deliberazioni assembleari annullabili sia proposta da un numero di soci pari ad almeno l’uno per mille della compagine sociale. In questo caso dovrebbero essere 88. Jannone, nella memoria del 1° aprile (cui ne sono seguite altre due, depositate il 2 e il 21 maggio) sposta la questione sulla possibile alternanza applicativa di due criteri. Rifacendosi all’articolo 45 dello statuto della banca, afferma che per impugnare l’assemblea sarebbe necessario o il quorum previsto tra capitale e azioni o quello risultante dal rapporto capitale e soci. In quest’ottica Jannone, anche solo con la JCapital sarebbe in possesso dell’uno per mille del capitale sociale di Ubi, ma la banca replica: una cosa è il quorum per l’impugnativa di una delibera assembleare, un’altra quello che l’articolo 45 sancisce. E cioè che, per la presentazione delle liste candidate all’elezione del Consiglio di Sorveglianza, sia necessario o il possesso dello 0,50% del capitale sociale o la firma di 500 soci. L’elezione non è l’impugnazione; sono due cose ben diverse.

 

 

 

 

Ubi banca dei mille

Ma l’aspetto, sicuramente più bizzarro della faccenda, è quello numerico. Forse agli albori della sua storia, l’allora Banca Popolare di Bergamo poteva contare su un migliaio di soci. Ma documenti ufficiali, come i bilanci, parlano di un corpo sociale di Ubi composto da decine di migliaia di soci. All’epoca dell’assemblea del 2013 sarebbero stati 87.150 e questo è il numero che compare negli avvisi di convocazione, cui risposero partecipando all’assemblea in oltre 14 mila. Secondo Jannone, i legittimati a partecipare sarebbero stati, invece, solo poco più di un migliaio. Su cosa si fonda questo conteggio? Un documento (allegato al verbale dell’assemblea) riporta l’elenco dei soci che erano presenti il 20 aprile 2013. Accanto al nome di ciascun socio è segnato anche il numero di azioni «bloccate» e in questo lungo elenco l’ex onorevole ha contato solo i soci portatori di 250 o più azioni. Escludendo chi era al di sotto di questa soglia e i presenti per delega, il totale è poco sopra i mille soci, praticamente quelli di una Bcc di dimensioni medio-piccole.

 

La decadenza elle 250 azioni

Ma chi e quanti erano i soci «in regola» il 20 aprile 2013? Semplicemente tutti coloro che erano in grado di dimostrare il possesso di almeno un’azione. Infatti, secondo lo statuto di allora, dopo aver acquistato il pacchetto di 250 azioni, era sufficiente mantenere un’azione per non perdere lo status di socio. L’ex onorevole sostiene che, non appena emesso il Decreto Crescita (il 18 ottobre 2012) Ubi Banca avrebbe dovuto subito stralciare dal libro soci chi non risultava titolare di almeno 250 azioni. Cosa che, in assenza di un termine applicativo perentorio, è avvenuta con la modifica statutaria approvata dal Consiglio di Sorveglianza il 19 dicembre ed entrata in vigore quest’anno. L’esito della votazione del 20 aprile 2013, secondo Jannone andrebbe rideterminato epurando dal computo dei voti espressi tutti quelli dei soci che il 20 gennaio 2013 erano titolari di meno di 250 azioni. Ma questa sarebbe tutta un’altra storia, fermo restando che secondo i calcoli di Ubi sarebbero stati oltre 66 mila gli aventi diritto. Il che riporta la questione all’origine; perché l’impugnazione sia ammissibile serve comunque la firma di un millesimo dei soci, su 66 mila sono 66. La decadenza pratica di quest’anno ha comportato la cancellazione di 20.553 soci per un saldo attivo, al 19 aprile di 74.916 soci.

 

Firme e Google maps

Nell’atto di citazione non mancano spunti curiosi. Uno su tutti l’autentica parte di un funzionario di Ubi che il 20 marzo 2013 si sarebbe recato a Sovere, Lovere e Vertova e che il giorno successivo avrebbe toccato Vertova, Parre, Cene, Scanzorosciate, Bagnatica e Trescore Balneario. Una velocità che ha dell’incredibile, sostiene l’atto di citazione. Macché, replica Ubi, basta controllare Google Maps: le filiali erano distanti tra i 30 e i 40 km con tempi di percorrenza compresi tra i 35 e i 60 minuti. Quando il satellite finisce in Tribunale.

 

da "Il Fatto Quotidiano" ULTERIORI SVILUPPI

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Ubi Leasing, “usura e beni sottovalutati”. Ecco le cause degli ex clienti della banca

La società deve affrontare diverse richieste di risarcimento in sede civile da parte di persone che avevano acquistato imbarcazioni con contratti di leasing

 
Ubi Banca
 
 
  

Non c’è solo il fronte penale dell’indagine per truffa e riciclaggio avviata dalla procura di Bergamonei confronti dell’ex ad Gianpiero Bertoli e dei manager Alessandro Maggi e Guido Cominotti. Ubi Leasing deve affrontare anche le richieste di risarcimento in sede civile di decine di clienti che avevano acquistato dei beni stipulando contratti di leasing con la società del gruppo Ubi Banca. A essere contestate, in particolare, sono le procedure di vendita di imbarcazioni che la banca ha per vari motivi ritirato ai clienti prima dello scadere del contratto: secondo chi si è rivolto in tribunale sono state messe sul mercato a prezzi inferiori al loro valore reale. Con uno schema analogo a quello finito al centro dell’inchiesta bergamasca, che ha consentito al presidente di Italcementi Giampiero Pesenti di aggiudicarsi per 3,5 milioni di euro uno yacht da 32 metri, valutato 6 milioni da una perizia di pochi mesi prima e assicurato per tale cifra. Ma non solo: in alcuni processi già in atto Ubi Leasing è accusata anche di avere applicato tassi usurai.

Nei contratti il sospetto di usura - “In certi contratti ereditati da Sbs Leasing (Ubi Leasing è nata nel 2008 dalla fusione di Sbs Leasing e Bpu Esaleasing, ndr), il tasso di mora, applicato alle rate pagate in ritardo, superava addirittura del 3,15% il tasso soglia, ovvero il tasso di interesse che la Banca d’Italia pone come limite massimo perché non ci sia usura”, spiega a ilfattoquotidiano.it l’avvocatoMassimo Meloni, che insieme alla collegaMonica Pagano ha portato in tribunale le cause di alcuni ex clienti di Ubi Leasing. Se il giudice darà loro ragione, questi beneficeranno di quella che viene definita “gratuità del prestito”, normata dall’articolo 1815 del codice civile: tutti gli interessi versati nel periodo del leasing, non solo quelli di mora, dovranno essere loro restituiti.

La (sotto)stima dei beni ritirati - Ma le conseguenze per Ubi Leasing, che ha chiuso il 2013 con una perdita di 67 milioni di euro dopo il rosso di 70 milioni del 2012, potrebbero non fermarsi qui. Tra gli ex clienti c’è chi sostiene che la società del gruppo popolare lombardo – i cui guai, oltre che il leasing, riguardano anche i conflitti d’interesse degli azionisti con tanto di risvolti in fase di indagine per la controllata Iw Bank – ha messo in vendita a cifre inferiori al loro valore effettivo i beni restituiti in anticipo. Danneggiando chi aveva sottoscritto il contratto di locazione finanziaria, visto che la somma incassata dalla banca con la vendita viene detratta dal debito residuo del cliente. E’ questo, per esempio, quello che sostiene di aver subìto l’imprenditore Luigi Seragni. Nel 2012 la sua BB Rent, una volta messa in liquidazione, ha restituito a Ubi Leasing un’imbarcazione da diporto utilizzata come bene strumentale all’attività svolta. Lo yacht a febbraio 2012 è stato valutato dalloStudio Navale Miele, indicato dalla banca, tra 750mila e 780mila euro Iva compresa. Contro gli 800mila euro Iva esclusa che sono stati stimati a maggio 2013 da un’altra perizia, questa volta richiesta da Seragni e depositata dal perito al tribunale di Genova sotto giuramento.

A firmare il documento che secondo Seragni sottostima il valore della barca è quell’Alessandro Miele il cui nome è finito nel registro degli indagati della procura di Bergamo e che, su richiesta di Pesenti, ha fatto da intermediario per la cessione dello yacht Akhir allo stesso presidente di Italcementi nonché storico azionista di Ubi. A fronte di tale valutazione e di un debito residuo che secondo la banca (i legali di Seragni contestano il calcolo) ammontava a oltre 950mila euro, Ubi Leasing ha poi incamerato la garanzia data dall’imprenditore, costituita da un pacchetto diobbligazioni Ubi Banca del valore di 200mila euro.

Nella vicenda che ha coinvolto Seragni, oltre al sospetto di usura e di sottostima del bene, c’è anche un altro capitolo. Quello delle fatture da migliaia di euro emesse da Ubi Leasing con la dicitura “spese sostenute per vostro conto” e riferite al trasferimento della barca e a lavori eseguiti dopo il suo ritiro. Spese giudicate immotivate dall’imprenditore, che le ha contestate ottenendo lostorno per alcune di esse con motivazioni che vanno da “errata applicazione Iva” a “errata emissione”.

Vendere le barche ritirate? Per Ubi Leasing non c’era fretta - Stando al racconto di Seragni e di altri ex clienti in causa, poi, quando Ubi Leasing ritirava le imbarcazioni, queste venivano affidate ad alcune società tra cui la Gloryacht, riconducibile a Miele, e la Marina di Verbella, i cui uffici e cantieri rispettivamente a Livorno e a Sesto Calende (Varese) sono stati perquisiti lo scorso maggio dalla Guardia di finanza di Milano su delega del pm di Bergamo Fabio Pelosi. Da quel momento in poi, secondo diverse fonti, erano queste società a gestire in tutto e per tutto il bene e a occuparsi della sua vendita.

Cosa che, comunque, non sembrava una priorità per Ubi Leasing. O, almeno, è quanto raccontano gli ex clienti finiti in causa con l’istituto. Il rifiuto da parte di Ubi Leasing di vendere il bene ritirato è per esempio un elemento che si ritrova nella versione di Marco Antichi riportata in un atto di citazione dello stesso nei confronti dell’istituto. Nel documento si legge infatti che la banca harifiutato un’offerta da 106mila euro per l’acquisto della barca che il cliente aveva acquistato in leasing, ma che non era più in grado di pagare, “significando” il rifiuto con l’incongruità della somma rispetto al valore del bene. La proposta era accompagnata da due assegni da 5mila euro l’uno a titolo di cauzione e se accettata, è la conclusione dell’ex cliente Ubi, avrebbe consentito alla banca di rientrare del proprio credito prima che fossero intraprese le vie legali. Cosa che però non è successa e così Antichi, che era rimasto indietro con i pagamenti e aveva chiesto una moratoria che non gli è stata concessa, ha perduto il bene. La banca, poi, ha fatto valere la clausola di risoluzione del contratto, notificandogli però un decreto ingiuntivo per il pagamento di 98mila euro. Con tanto di segnalazione dell’insolvenza alla Centrale allarme interbancaria. E’ sulla cifra richiesta che verte la difesa del legale di Antichi, l’avvocato Giacomo Giribaldi, che non può fare a meno di notare come se per Ubi la barca valeva più di 106mila euro e stante il fatto che per contratto il debito residuo del cliente deve essere sottratto dal prezzo di realizzo, è il ragionamento, il saldo per Antichi avrebbe dovuto essere in pari se non addirittura positivo.

Decine di cause in sede civile - Contro Ubi Leasing sono state intentate altre cause in sede civile, oltre a quelle di Seragni e Antichi. Ilfattoquotidiano.it ha avuto conferma dagli avvocati contattati dell’esistenza di una quarantina di procedimenti. Ma, visto il riserbo mostrato da alcuni di essi per non pregiudicare la possibilità di arrivare ad accordi extragiudiziali che includano clausole di riservatezza, il numero potrebbe essere più alto.

Nel frattempo le attività del ramo leasing di Ubi, di cui Bankitalia lo scorso anno ha multato una quindicina di ex amministratori per “carenze nell’organizzazione, nei controlli interni e nella gestione del credito”, continuano a navigare in acque difficili parzialmente mitigate dall’aumento di capitale da 400 milioni portato a termine in due tranche tra 2013 e 2014. All’orizzonte c’è la gestione di una discreta mole di crediti di difficile riscossione, un male che, va detto, con gli effetti della crisi riguarda molte società del settore. Fatto sta che l’ultimo bilancio evidenzia che, su un portafoglio crediti di 7,35 miliardi, quasi il 20%, 1,3 miliardi, risultano “deteriorati” che significa che saranno difficili da recuperare. Ubi dal canto suo, ricorda come ”la società è stata oggetto di ispezione da parte della Banca d’Italia conclusa a ottobre 2012. Al termine dell’ispezione e dei rilievi mossi della stessa Banca d’Italia la capogruppo ha proceduto a realizzare un aumento di capitale realizzato in due tranche: 300 milioni il 30/1/2013 e 100 milioni il 16 aprile 2014. La società è stata inoltre oggetto di interventi organizzativi e gestionali tra cui il completo rinnovo dei vertici (management e cda) avvenuto a giugno 2013. Il nuovo management sta portando avanti con grande energia e disciplina l’attività di gestione per condurre fuori dalla crisi la società”.

ATTENZIONE: Copia a scopo dimostrativo. Alcuni elementi potrebbero non funzionare.