Il sito Dagospia esagera sempre un po’, fa parte del suo carattere, e lo fa anche quando, riferendosi al nuovo patto di sindacato siglato nei giorni scorsi dagli industriali bresciani soci di Ubi Banca, scrive senza tanti giri di parole che “la leonessa azzanna la banca di Bergamo”. Un titolo tirato, è evidente, e tuttavia, in questa metafora da giungla finanziaria, un fondo di verità c’è.
Riassumiamo per chi si fosse perso le ultime vicende: nei mesi scorsi, con un decreto legge, il governo ha imposto a Ubi Banca e alle altre banche popolari italiane con un patrimonio non inferiore agli 8 miliardi di euro di trasformarsi in Società per azioni. La differenza fra le due forme societarie è sostanziale: nelle banche popolari vige il cosiddetto voto capitario, cioè ogni socio, nelle assemblee in cui si decidono la governance e le più importanti linee di sviluppo, possiede un voto, indipendentemente dal numero di azioni di cui è proprietario; nelle Spa chi possiede più azioni ha invece maggior peso nelle decisioni, in proporzione al numero di azioni detenute. La prima forma societaria, basata sul numero di soci, ossia su singole persone e non sul numero di azioni, può a buona ragione essere definita “popolare”; la seconda, basata, al contrario, sul pacchetto azionario di cui si è proprietari, può invece essere definita “aziendale”.
Ubi Banca, nata dalla fusione fra la Bpu – costruita intorno alla Banca Popolare di Bergamo – e la bresciana Banca Lombarda, nell’ottobre scorso ha dunque varato la sua trasformazione da Banca popolare in Società per azioni e subito dopo i maggiori azionisti, per non perdere il controllo dell’istituto di credito, hanno cercato di unire le forze creando aggregazioni nella base sociale. Così hanno fatto i bergamaschi, che all’inizio di febbraio hanno varato il “Patto dei Mille”, e così i bresciani nella settimana appena trascorsa.
Tirate le somme, i rapporti di forza sono risultati schiaccianti a favore di Brescia. Al Patto dei Mille, al momento del varo, avevano infatti aderito 65 azionisti, in rappresentanza del 2,27 percento del capitale della banca; mentre il “patto di consultazione e di voto” bresciano, è stato sottoscritto da 173 azionisti e ha raccolto un numero di azioni pari all’11,95 percento del capitale. Cinque volte di più dei bergamaschi.
Che cosa significa tutto questo? Che il peso delle decisioni in Ubi Banca pende ora tutto a favore della città della leonessa – e in futuro sarà sempre di più così se i numeri non cambieranno, ma Bergamo difficilmente potrà superare la soglia del 5 percento -, ed è ovvio che i bresciani, già nell’assemblea del 2 aprile, punteranno ad avere maggiore rappresentatività nella governance, essendo l’unico gruppo in grado di muoversi con una certa influenza accanto ai fondi di investimento, i quali possiedono il 40% delle azioni, ma che in genere non entrano nella gestione.
Evidentemente, i nostri intraprendenti cugini sono stati più capaci di “fare squadra”. Ma non solo, perché nel loro “patto di consultazione e di voto” oltre ai principali imprenditori (dalla famiglia Folonari – come persona fisica la principale azionista di Ubi -, ai Gussalli Beretta, proprietari della famosa industria di armi) ci sono anche istituzioni, enti religiosi e soprattutto soci di Ubi di altri territori. Come ha spiegato il Corriere della Sera, il nucleo dell’accordo bresciano fa riferimento “all’ex nocciolo duro dei soci raccolti nell’Associazione Banca Lombarda e Piemontese, che deteneva l’11,4% di Ubi versione cooperativa e raccoglie azionisti di Lombardia, Piemonte, Veneto, Trentino ed Emilia Romagna”. Brescia, insomma, tradizionalmente unita e coesa, si è dimostrata anche più capace di costruire alleanze. Per completare il quadro si attendono ora le decisioni della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo che possiede il 2 percento del capitale. Il suo presidente, nell’assemblea dell’ottobre scorso, aveva comunque dichiarato di voler giocare una partita in proprio.
In vista del rinnovo dei vertici, costituiti dal Consiglio di Sorveglianza e dal Consiglio di gestione, il patto bresciano ha annunciato la volontà di presentare una «propria lista» e di voler «consultarsi sulla scelta dei candidati più idonei a ricoprire la carica di membri». A tale riguardo, il Giornale di Brescia aggiunge, in maniera alquanto singolare: ”eventualmente in dialogo con altri sindacati di azionisti, come quello costituito a Bergamo”. Eventualmente. È tuttavia probabile, oltre che auspicabile, che un accordo fra Bergamo e Brescia ci sarà e che alla fine verrà presentata una lista unica, almeno in questo debutto della Spa.
Anche perché in tutta questa vicenda c’è un paradosso clamoroso: che se anziché i numeri delle azioni si vanno a vedere i risultati che le diverse banche rete hanno espresso nella recente gestione, si constata che l’utile netto consolidato del 2015 di Ubi, pari a 195,1 milioni di euro, è stato prodotto per 127,30 milioni dalla Banca Popolare di Bergamo, mentre il Banco di Brescia concorre al bilancio con una perdita di 11,20 milioni, e l’altra banca bresciana, quella di Valle Camonica, ha prodotto un utile di 3,6 milioni. È quindi del tutto evidente che i bergamaschi portano il valore, ma che se si contano esclusivamente le azioni sono i bresciani a decidere dove destinarlo. E per Bergamo c’è davvero poco di cui rallegrarsi.
Tanto più che se a questa situazione sommiamo l’incorporazione, avvenuta due anni fa, del Credito bergamasco, altra banca molto redditizia, all’interno del Banco Popolare, per noi la conclusione potrebbe essere davvero molto amara: avevamo due bellissime banche…