RIFLESSIONI SULLA SEMESTRALE
UBI, RIFLESSIONI SULLA SEMESTRALE
Passata l’euforia degli annunci, ben sapendo che gli uffici stampa delle grandi banche sanno fare il loro mestiere e hanno solidi argomenti da spendere con i media, si può fare qualche ragionamento più approfondito sui risultati della nostra UBI. Non solo sui numeri, ma sul significato e sulle origini dei numeri stessi.
La premessa è che tutti noi abbiamo un genuino interesse a che la banca vada sempre meglio; senza fini di potere, volendo capire tutto il quadro e non solo commentare le parti vuote o piene del bicchiere, secondo convenienza.
Innanzitutto, la banca è solida. E’ un dato di fatto. Ma lo è sempre stata, soprattutto per una certa parte del gruppo e il merito affonda le radici nel passato. Nel presente, il merito è delle tasche dei soci che nel 2011 hanno sottoscritto 1 miliardo di Euro di aumento di capitale.
Il merito di amministratori e top management è stato quello di chiedere i soldi per tempo, convincendo il mercato con piani che, per il 2013, promettevano 700 milioni di utile netto. Vero è che se tali previsioni sono ben lontane della realtà, la colpa sta nello scenario esterno. Ma qualcuno quelle previsioni le ha pur fatte sue. E poi, se i risultati eccellenti dipendono solo dello scenario esterno, a che serve l’azione del top management? Per lavorare e guadagnare qualcosa sui servizi, sui conti correnti, sul business ordinario e sulla raccolta investita in titoli di stato, bastano gli impiegati e i funzionari. Da tanti super dirigenti è invece lecito aspettarsi di più, anche se lo scenario cambia e diventa difficile.
Banca solida, dunque, ma merito al vero merito e non prendiamo troppo sul serio gli indici.
Gli indici sono infatti il risultato di un banale rapporto: sopra il patrimonio, cioè i soldi dei soci; sotto, le varie attività della banca, che dipendono dalle politiche di gestione. Troppo facile migliorare gli indici di solidità chiedendo nuovi soldi ai soci e, al contempo, abbassando gli impieghi e i finanziamenti ordinari alla clientela e aumentando i titoli di stato. La fotografia istantanea sembra bella, ma se il film continua così, il conto economico muore; e tra gli attivi emergono gli impieghi peggiori, quelli che i clienti non possono rimborsare, diventando sofferenze e perdite. Se non si fanno ruotare gli impieghi con nuovi prestiti (di qualità adeguata), è inevitabile vedere aumentare l’incidenza delle sofferenze.
UBI non ha mai avuto problemi seri di patrimonio, anche se alcune grandi partite, definite “strategiche” o piuttosto “politiche”, dalle perdite sulle azioni di Intesa e quelle su grandi clienti finanziati troppo amichevolmente, ne hanno bruciata una bella fetta.
Qualche problema, per fortuna ora superato, c’è stato anche sulla liquidità. Ma questo è avvenuto perché alcune parti del gruppo prestavano troppo o troppo aggressivamente, rispetto a quanto raccoglievano dalla clientela ordinaria. Lo squilibrio era cosa nota, ma nessuno ne ha mai chiesto conto. Forse perché faceva comodo, ad alcuni consiglieri e manager, mostrare e paragonare le dimensioni; grandi si, ma con basi più fragili. Ma se gli amministratori non stanno attenti agli equilibri fondamentali, che ci stanno a fare?
Cose passate? No, perchè l’andamento insoddisfacente dei nuovi impieghi del presente è anche figlio di quelli eccessivi o avventati del recente passato, che ora obbligano alla dieta.
Da persone certamente intelligenti e professionali, oggi non guasterebbero un po’ di autocritica, di onestà intellettuale e un po’ meno opportunismo. I numeri 2013, al limite della sufficienza, vengono invece passati come un nuovi meriti, quando invece sono il rimedio di errori strategici piuttosto recenti e abbastanza evidenti.
Siccome le banche si nutrono di credibilità e di fiducia verso clienti e azionisti, il riferimento all’onestà intellettuale non è solo retorica o etica da salotto.
Autocritica e credibilità servono davvero, anche per fare ripartire il business e il conto economico, dalle fondamenta, dalla motivazione delle persone, anche nei ruoli più modesti.
E’ velleitario chiedere di cambiare pagina e di ripartire con entusiasmo, se chi dovrebbe dare l’esempio non cambia sostanzialmente, con fatti concreti. Se le seconde file e il management di linea, cioè quello delle banche reti, ha dimostrato di fare bene, talvolta anche meglio dei giocatori titolari che dirigono la capogruppo e gli staff, si potrebbero anche invertire i ruoli. Spostare il top management per scelte di merito, invece che attenersi ai circoli di fedeltà, è un tema strategico, su cui gli amministratori sembrano ancora in ritardo. E se non sono i presidenti a muovere con coraggio qualche passo, anche al costo di rompere alcuni equilibri e di perdere qualche consenso consolidato o negoziato di recente, è difficile che si sacrifichi spontaneamente qualcuno al piano di sotto. Se poi i risultati non dipendono solo dagli scenari esterni, ma dalle persone, si deve avere più coraggio di fare circolare aria nuova anche attraverso le nomine. Non però nel senso di utilizzare le nomine per acquistare sostenitori in modi che, almeno in passato, erano prerogativa di altre banche, più abituate ad ospitare la politica.
Cosa c’entra tutto questo con i numeri della semestrale?
C’entra eccome, perché i numeri di una banca sono enormi, ma proprio per questo abbastanza facili da manovrare nel breve. Non si può, invece, eludere o negare altrettanto facilmente l’evidenza dei trend di fondo.
Nel breve, bastano una plusvalenza, una campagna su prodotti che generano più commissioni immediate, una certa valutazione sugli accantonamenti, un po’ di finanza, e gli utili escono sempre. Anche nella semestrale 2013 ci sono 100 milioni di utili finanziari, su 52 totali; ma gli utili sui BTP, nel 2012 e parte 2013, sono stati capaci di farli tutti. Nel medio termine, invece, tutto cambia.
Le banche rete, chi più, chi meno, guadagnano, ma un termini troppo disomogenei, non solo per ragioni geografiche. Questo significa forse che la holding non ha saputo allocare in modo adeguato le risorse umane, organizzative e finanziarie tra le diverse aree strategiche e di prodotto?
Da qualche anno, non certo da oggi, il mercato e gli analisti più attenti dicono che UBI è debole sulle gestione dei ricavi. Di fronte al calo degli impieghi non si può però sempre e soltanto dire che “il cavallo non beve”. Chi è bravo, quantomeno, sottrae quote di mercato ai concorrenti. E dentro il gruppo c’è chi sa i cavalli che bevono trovare, anche con la crisi.
Se invece non sono errori di allocazione di risorse, sono forse la struttura della holding o quella “federata” del gruppo (non la forma cooperativa) che non consentono di decidere con efficacia? O forse costa troppo, visti i tempi, mantenere tante funzioni di staff (e di potere). Sarebbe interessante conoscere più dettagli sui tagli di costi, che sono stati importanti. Tagli lineari, in periferia o al centro?
Tante domande, ma oggi ai vertici di UBI pare più facile mostrare che si rafforzano gli indici patrimoniali e fare il conto economico tagliando i costi. Ma da quanti anni si sta facendo solo questo? E perché nessuno comunica con chiarezza su cosa intende puntare il gruppo UBI nei prossimi 3-5-10 anni, mettendoci faccia e ruolo?
Chi gestisce UBI ha in custodia circa 10 miliardi di Euro di patrimonio (almeno contabile), nell’interesse di decine di migliaia di soci e di milioni di clienti. Fare 100 milioni di utile all’anno – che pure sembrano tanti – è certo meglio che perdere. Ma guadagnare solo l’1% sul capitale di rischio non è certo un successo da sbandierare per chi fa impresa o fa il top manager; senza scomodare la misurazione dell’EVA o chiedere lumi a consulenti stile McKinsey, tanti soci capiscono da soli che così, alla lunga, si distrugge valore.